Primavere arabe: Libia

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  1. Il 17 febbraio 2015 è stato il quarto anniversario della rivoluzione libica e nessuno l’ha festeggiato. Nella notte tra il 15 e il 16 febbraio l’Egitto ha infatti lanciato dei raid aerei contro le postazioni dello stato islamico nella Libia orientale, in risposta all’uccisione di 21 cristiani copti egiziani rapiti a Sirte tra il 31 dicembre 2014 e il 3 gennaio 2015.
    A quattro anni dalla caduta di Gheddafi, la Libia è oggi un paese dilaniato dalla guerra civile in cui si è inserito l’Isis.
    Quale futuro si prospetta? Cosa dobbiamo aspettarci dalla comunità internazionale? Come interverrà? Come si comporterà l’Italia, da anni legata alla Libia? L’Occidente e l’Italia, rappresentano davvero il principale bersaglio per un nuovo e cruento attacco terroristico?
    Con le riserve di petrolio più abbondanti di tutta l’Africa e solo sei milioni di persone a dividerne i proventi, nel 2011 il futuro della Libia sembrava radioso. Perché la primavera libica sia finita cosi male è oggetto di numerosi dibattiti. Alcuni accusano la Nato di non aver fatto seguire un progetto politico ai bombardamenti. Altri sostengono che mancano le istituzioni necessarie per far funzionare la democrazia, o che struttura frammentata e tribale del paese renda difficile la collaborazione.
    La primavera libica è stata sanguinosa è si è conclusa con l’uccisione di Muammar Gheddafi. Dopo la sua morte, le milizie ribelli hanno cominciato a farsi la guerra per assicurarsi il controllo del territorio. La vera guerra civile è scoppiata nell’estate del 2014, quando i partiti islamici sono usciti nettamente sconfitti dalle elezioni. Gli islamici e i loro alleati si sono ribellati contro il parlamento eletto formando la coalizione Alba libica, che si è impadronita di Tripoli. Il nuovo governo formato, riconosciuto dalla comunità internazionale, è fuggito a Tobruk, nell’est del paese, e da allora gli scontri si sono susseguiti in tutta la Libia.
    Con migliaia di morti, città distrutte e 400mila persone rimaste senza casa, il grande vincitore è il gruppo Stato islamico, che ha sfruttato il caos per estendere rapidamente la sua influenza. L’Egitto, che era già il principale sostenitore delle forze governative, ora è entrato nella guerra a tre tra governo, Alba libica e Stato islamico innescando una reazione che rischia di trasformare la guerra in un conflitto internazionale. Regno Unito, Francia, Italia e Stati Uniti temono che il gruppo jihadista lanci attacchi contro l’Europa attraverso il Mediterraneo.
    L’Italia intanto sta fronteggiando l’arrivo di migliaia di migranti passanti per la Libia, molti dei quali annegano in mare.
    Bernardino Leon, inviato speciale dell’Onu in Libia, insiste nel dire che la sua priorità è salvare la Libia prima che si disgreghi, nonostante i rappresentati di Alba libica continuino a boicottare i colloqui per una ‘soluzione pacifica’ ai conflitti.
    Il 15 febbraio il governo italiano ha chiuso l’ambasciata italiana a Tripoli. La decisione è stata presa dopo che il gruppo Stato Islamico ha divulgato un video in cui avvertiva: ’siamo a sud di Roma’. Il presidente del consiglio italiano Matteo Renzi ha risposto minacciando un’azione militare, smentita in seguito. Non è infatti il momento per un’azione militare e sarebbe meglio aspettare una decisione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. La tensione è comunque alta: la Libia è a meno di 300 chilometri da Lampedusa e a poco più di 500 dalla Sicilia. Un altro motivo di preoccupazione per l’Italia sono i suoi investimenti, valutabili in miliardi di dollari, fatti in Libia per estrarre il petrolio. L’Eni è stata la prima compagnia petrolifera a sviluppare l’industria del petrolio quando questo è stato scoperto nel paese nel 1959.

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